Quando si è giovani si è sotto una cappa di incoscienza;
secondo le sue sensazioni tutto era protetto dalla dovuta e rispettabile
apprensione genitoriale.
Tutto intorno a lui gli pareva dovuto e congruo alle dinamiche più semplici che devono avvenire in famiglia, anche se un accenno di oppressione non gli era così lontano e nella visione anche più chiusa e repressiva di chi gli stava intorno non riusciva a non vederci delle apparenti similitudini. Giustificava tutto ciò con il pensiero conciliante per cui a parer suo le cose non gli andavano poi così male.
Stava bene.
La famiglia stava bene.
Non poteva dare colpa ai genitori di ciò che gli accadeva lontano dai loro occhi, per sua stessa volontà o colpa.
Ovviamente a quell’età non ci si prende le proprie responsabilità finché non si è obbligati a farlo per esplicito dovere imposto o per necessità.
Lui le responsabilità non sapeva nemmeno cosa fossero perché anche tutto ciò che era ai suoi occhi palesemente diventato nocivo in un’apparente famiglia felice, viveva sotto un’aurea incosciente.
Si può parlare di responsabilità a quell’età?
Ci si può autoproteggere?
E’ certo che più si è vulnerabili e più qualsiasi cosa ti accade intorno è percepita amplificata e per assurdo questa è sempre una reazione poco visibile a chi ti sta intorno.
La famiglia felice non era più così felice ma lui non batteva ciglio e ogni sua esternazione emotiva, fisica e psicologica la attribuiva ad un suo estraniamento rispetto a coloro che
frequentava e che vivevano intorno a lui.
Era nel posto giusto?
Oppure lui stesso era incentivato ad essere così?
Ora ci si chiede se fosse portato per necessità a chiudersi e a non osare nemmeno chiedere il perché delle cose.
Dove stavano le corrette gerarchie?
Era legato in modo oppressivo alle dinamiche familiari ma da un altro suo punto di vista che capiva, ma nascondeva, cercava di allontanarsi con le classiche bravate che a quell’età sono accettate e quasi propedeutiche per una sana crescita, ma questa commiserazione non accadeva allo stesso modo all’interno dei suoi pensieri e tutto ciò che era estraneo ad un modo di essere conciliante era secondo lui nocivo esso stesso per il suo nucleo che lo avrebbe protetto nonostante tutto.
Forse non voleva nessuna protezione.
Gli altri già notavano una certa diversità, che non dichiaravano apertamente, ma lui era tutto tranne che stupido.
Era si tra le nuvole,
smemorato,
ma non stupido.
I commenti sui suoi movimenti strani non erano innocui alle sue orecchie e nemmeno quelle visite che era costretto a fare a causa del fatto che anche agli occhi dei genitori stava diventando tutto troppo palesemente sconnesso erano fastidiose.
Ma quando se ne parlava a lui non era spiegato l’effettivo motivo di tutto ciò, oppure non lo capiva.
Era chiaro che fino a quel momento lui teneva nascosto perfino a se stesso ciò che gli stava capitando, forse proprio perché non riusciva a darne una spiegazione logica.
Era emotivamente fragile.
Era costantemente vigile su come veniva percepito dai coetanei che scherzosamente lo guardavano come un esempio per certi versi, ma senza fargli mancare una dose di scherno e di rigetto.
Egli era per certi versi, come si direbbe in un film di bassa qualità, un “bimbo speciale”, perché la parola “problematico” è discriminante. I problemi erano evidenti.
Credeva lui stesso nel suo estro nella musica e in quello che i genitori stessi gli permettevano di attribuirsi, ma la verità è che ne ha sempre dubitato proprio per quella stranezza che ormai
stava venendo fuori in modo spiccato rispetto alle altre peculiarità, e quasi in modo oppressivo doveva tentare in tutti i modi di nasconderla e di farne un suo segreto personale che stava diventando la sua sfida più grande.
I segreti iniziavano ad essere al centro della sua vita. Non erano segreti normali, ma sensazioni da nascondere con vergogna.
Nulla gli era spiegato; nulla veniva fuori in modo chiaro, né da quella famiglia unita solo apparentemente né da tutto ciò che gli specialisti da cui era costretto ad andare gli dicevano in modo mai chiaro e mai convincente.
Dubitava di sé e degli altri.
Così la sua sensazione di essere costretto ad essere diverso si faceva sempre più strada nella sua mente.
Senza un’apparente causa, la sua poca fluidità nei movimenti era dovuta ad un disturbo ancora sconosciuto e i riscontri psicologici annessi a quella condizione non erano di grande aiuto per superare le dinamiche di estraniazione.
Erano tremori…
Non solo apparenti.
Una tazzina di caffè richiedeva già troppo equilibrio.
Un taglio di capelli lo ha privato di una piccolissima parte di cartilagine superiore dell’orecchio; a detta dei genitori era colpa del parrucchiere inesperto, ma lui sapeva che era solo colpa sua. Il gioco era nascondere;
prima di tutto a se stessi.
Cresciuto, continuava a suonare.
Con il pianoforte era bravo e capace, ma con la scuola aveva sempre dei problemi dovuti a quell’aspetto che ormai era parte di lui.
Ogni movimento, ogni passo, ogni gesto, sopratutto se osservato da qualcuno gli sembravano impossibili da compiere in maniera normale. Quindi man mano passava il tempo lui stesso creava delle scorciatoie per cui poter passare inosservato e far sembrare normale ciò che dentro di lui esplodeva come una bomba devastante.
Una repressione senza forze in gioco.
Faceva andare avanti la sua vita da ormai adolescente con una parola chiave ben impressa nella mente che lo avrebbe portato ad essere e voler sembrare qualcun altro, qualcos’altro per
gran parte del suo lato sociale relazionale.
Questa parola era “finzione”.
Fingere iniziava a venirgli bene anche in situazioni in cui non avrebbe mai voluto fingere.
La finzione era un meccanismo di difesa per poter sopravvivere sia all’interno della famiglia che ormai era diventata oppressiva in maniera patologica, sia all’esterno. Tutto ciò che per la natura umana è normale dover affrontare per lui erano problemi insormontabili.
Così la sensazione di non riuscire ad affrontare la vita in modo normale era per lui una costante paranoica e problemi anche piccoli crescevano silenziosi dentro ad un animo che non poteva che essere definito emotivamente fragile e timoroso, diventando chiaro e palese che qualcosa non andava.
E pure lui stesso ora iniziava a dubitare anche delle figure che prima erano stabili come statue di marmo.
Non avendo più punti di riferimento che lo potessero sostenere sia psicologicamente sia fisicamente, è crollato
Il panico da quel momento in poi era diventata la condizione da cui non poteva staccarsi e per mesi non si può dire che abbia vissuto una vita normale, ma una sorta di purgatorio in cui non sapeva a chi attribuire le cause della sua situazione e nemmeno dare a sé stesso una, anche minima, risposta. Era solo, con la sua unica consolazione di saper suonare il pianoforte che non lo aveva mai abbandonato, ma nemmeno questo era di gran conforto. Pensava semplicemente di dover morire.
Chiudeva gli occhi e determinava in quanti giorni sarebbe morto.
La finzione e la grande chiusura nei confronti delle persone esterne era sempre di più accentuata. Ogni visita medica per eliminare ogni causa più preoccupante non lo faceva stare che peggio proprio perché una causa non c’era.
“Ogni malessere è nella tua testa”, dicevano.
E la risposta che si sentiva propinare era sempre stata: è tutto psicosomatico. Chi lo capiva a quel punto?
L’immagine era il soffitto, un divano, una coperta e la solitudine.
Da solo non doveva fingere.
E un mondo, seppur piccolo, senza finzione era una consolazione più che gradita.
Le soluzioni che la famiglia intorno a lui cercava di proporgli erano le più disparate.
Ogni problematica era nella sua mente e quando tutto è nella tua mente come puoi determinare da solo cosa accade intorno a te?
Nessun sintomo era passato; nemmeno stando a casa da solo, lontano da tutti.
Paranoia
Agorafobia
Dolori alla testa
Attacchi di panico improvvisi
Dissociazione corpo – mente
Paura della morte
Spasmi muscolari
Così tutto si divideva tra casa e centri specialistici per qualunque cosa.
La sua speranza era trovare qualcosa dentro di sè che non funzionasse davvero, in maniera organica, tangibile, e per un giovane riporre le proprie speranza nei vari responsi ospedalieri non è un bel vivere.
Ogni tipo di controllo lo spaventava, incuriosiva e terrorizzava allo stesso momento.
Si passava da cuore, cervello, intestino, orecchie. Esami del sangue di ogni tipo, mentre altri specialisti della sfera emotiva tentavano di dare la propria idea del ragazzo.
Pranoterapia, sedute di agopuntura, terapie psicologiche comportamentali, test pseudoscientifici, sedute di ipnosi.
Tutto questo portava a poco, tra ricerca del problema e tentativi di temporanea sedazione dei sintomi.
Nulla veniva fuori.
Così doveva tenersi tutto dentro.
Più si allontanava da casa e più la sua percezione di sicurezza diminuiva.
Una visione nichilista che comportava l’annullamento di ogni possibilità di trovare conforto negli altri e doversi chiudere in uno spazio in cui poter soffrire da solo.
Era costretto a spostarsi per le dinamiche basilari che doveva affrontare come un normale ragazzo che frequenta la scuola superiore.
Tutto precipitava piano piano, seguendo i primi veri insuccessi scolastici giovanili con un distaccamento anche voluto da ogni rapporto sociale.
Per lui sembrava di buttare via tutta la sua vita giovanile che per molti aspetti poteva essere più fertile rispetto a come gli si era presentata fino a quel momento.
Il pianoforte era sempre accanto a lui e tornava piano piano la voglia di suonare stando da solo, come unico conforto.
La solitudine musicale.
La prima vera proposta concreta è stata una pillola.
Antidepressivi.
E dopo aver provato ogni soluzione, questo iniziava, quasi senza accorgersene, a migliorare la sua
visione di cosa gli stesse capitando e tutto ciò sembrava meno oppressivo e senza andare
a capire quali fossero le vere motivazioni di uno stato cosi debilitante, i sintomi e le ripercussioni psicologiche diminuivano.
Certo, nulla era stato cacciato, ma ne sentiva meno il peso.
Sembrava di vedere una parvenza di normalità nel mare di confusione che nonostante tutto rimaneva.
La vita era diventata un suo punto di domanda perché nessuna risposta gli era stata fornita da nessuno, ma qualche ipotesi iniziava a venir fuori tramite l’apprensione del padre medico e la disperazione di una madre che non poteva più vedere suo figlio in quelle condizioni.
Da questo punto la sua vita ha iniziato a subire un netto e drastico punto di non ritorno. Una separazione mentale con il passato, un approccio diverso, sempre fragile ma cinico e distaccato. Perché la sua condizione di mobilità fisica non ha subito grandi cambianti, ma il suo approccio mentale si è adagiato su un altro piano psicologico, forse meno compromesso. Faceva affidamento su altri stratagemmi e la possibilità di uscire di casa più spesso gli dava l’occasione per capire meglio lui stesso cosa avesse trascorso e cosa tutt’ora continuava a portarsi dietro.
Aveva mantenuto una grande capacità di attivazione di meccanismi di autodifesa
e soprattutto la sua vita si faceva sempre più sorretta da un’impalcatura di FINZIONE e di MENZOGNE.
Lui cresce e le dinamiche di vita si fanno più complesse
Le visite psichiatriche e neurologiche si facevano più intense. Così si iniziava a capire che egli avesse un disturbo del movimento con implicazioni sulla sfera emotiva. Questo gli veniva detto.
Nessuna diagnosi, nessuna risposta, ma solo un vago e ristretto contentino dato ad un ragazzo che ormai stava perdendo le speranze verso una vita fatta di gesti e dinamiche normali. Un’utopica serenità e la possibilità di mettere in atto tutto ciò che aveva nei suoi programmi di un giovane emotivamente coinvolto nella musica e nelle pratiche artistiche erano ancora più di un’utopia.
Le dinamiche di finzione per quanto riguarda il suo atteggiamento, la sua postura, la sua gestualità, il contatto fisico con le altre persone soprattutto, erano adibite ad una meccanismo
di assunzione di posture particolari che facevano contrarre certi muscoli e ne lasciavano distendere certi altri per non dare spazio al sistema nervoso di prendere il sopravvento sul sistema muscolare, rimanendo sempre in ascolto della parte emotiva e psichica: più egli si sentiva costretto ad assumere certe posizioni perché all’interno di circostanze che ne prevedessero una propria immagine di normalità, più la mente iniziava a giocare brutti scherzi e certi meccanismi di difesa si scatenavano; i più devastanti e debilitanti.
Le posizioni riguardavano sia quelle in piedi, per cui egli doveva irrigidire le gambe e i glutei per mantenere una parvenza di stabilità, sia quelle da seduto per cui doveva sedersi sul bordo della sedia, appoggiarsi allo schienale contraendo gli addominali e i polpacci, così da non avere scosse neurologiche improvvise.
Al pianoforte era lo stesso, sopratutto quando si esibiva in pubblico. Le mani non gli hanno mai dato problemi di questo tipo ma una sostanziale crisi muscolare gli capitava ogniqualvolta era poco attento alla sua postura e più concentrato alla composizione, all’improvvisazione o ad una banale esecuzione.
Certi movimenti del collo gli erano di grande impiccio, collegati anche a dei semplici tic nervosi e piccole scosse ai muscoli superiori.
I rapporti strettamente fisici con le altre persone, come strette di mano, abbracci o soltanto intraprendere un discorso faccia faccia gli era di grande impaccio emotivo, per non parlare della ripercussione psicologica, come in un loop di cui non sapeva trovarne l’origine.
Così precludeva ogni esperienza di quel tipo.
Con le ragazze era la stessa cosa e per lui non c’era occasione migliore per dover fingere, costruirsi facciate e una sorta di personalità che potesse distrarre da tutto ciò che potesse allontanarle.
Si è sempre tenuto distante da un’approccio sfacciato, sennonché proprio quell’approccio facesse parte della finzione stessa, diventando un aiuto e non un ostacolo.
Era una finzione costruttiva. Non la percepiva come un qualcosa di nocivo. Non agiva con intenti negativi.
Nessuno a parer suo lo aveva mai capito, così cercava un’altra persona dentro di sé che potesse rientrare, seppur in modo borderline, in un’ipotetica costruzione lineare e comprensibile almeno a se stesso in un contesto di normalità.
L’alcool era un sedativo potente per le sue distonie muscolari, soltanto che aveva un’insopportabile effetto rebound appena la sua efficacia veniva meno e i momenti che doveva affrontare subito dopo non erano di certo migliori.
Da ubriaco sosteneva anche i concerti migliori perché fuori da ogni logica di qualsiasi problema. Il problema era sempre il giorno seguente.
La finzione iniziava ad entrare sempre di più in molti altri aspetti della sua vita e la separazione con ciò che era la vita passata si faceva più netta.
Non si riconosceva più in una logica di passato-presente-futuro.
Tutto si era ribaltato.
Pensava continuamente: “com’era prima di tutto ciò?”
E se glielo chiedete ora, sempre che voi lo conosciate o che esista davvero, vi dirà che è sempre più evidente che è possibile cambiare radicalmente approccio alla vita senza che se ne prenda consapevolezza immediatamente. Nessuna consapevolezza, solo necessità.
Per molto tempo rimane nell’impossibilità di conoscere le motivazioni e le cause della sua condizione finché
la vita lo porta ironicamente ad iscriversi e intraprendere una laurea in scienze psicologiche e nello stesso periodo una visita neurologica e un test del DNA segnalano una mutazione proprio nei suoi geni.
Il gene in questione si chiama DYT11 e per il momento i medici gli comunicano per la prima volta il nome del sintomo che lo affliggeva da anni: distonia mioclonica.
Nessuna malattia, nessuna cura, ma solo l’individuazione di un’anomalia e il suo diretto effetto sulla sua persona.
Una mutazione che aveva modificato il suo stesso modo di vivere:
questo gene stava li, silenzioso e fingeva di poter sostenere una normale struttura genomica. Il tempo gli ha dato torto. Anche le cose più piccole e insignificanti vengono a galla come un corpo morto gettato in un fiume.
Tutti scoprivano il corpo, lui nascondeva il reato.
Le terapie messe in atto per lui non furono di gran aiuto se non per placare minimamente i sintomi
per non portarlo all’esasperazione, anche se il non riuscire a dare un nome concreto, una risposta precisa e una cura definitiva ad un problema che così tangibile e reale lo era ormai da anni lo frustrava non poco.
In lui rimaneva il pensiero che tutto ciò viveva solo nella sua mente e che ogni problema psicologico derivato non era un effetto ma ne era proprio la causa.
Si sentiva matto.
Un matto incompreso in un mare di normalità che lo avrebbe solo che confortato.
Intorno a lui le cose non miglioravano, ma si adattavano soltanto. Mutavano, mentre lui si nascondeva. Mutava.
Nel frattempo va a vivere da solo, insegna pianoforte e cerca di costruirsi una parvenza di serietà.
Il cambiamento, in quel periodo, era la parola chiave per ciò che riguardavano le sue paure in relazione alle cure ancora poco efficaci che doveva sostenere.
Pochi sapevano e pochi comprendevano il reale disagio quando ne venivano a conoscenza. Non sopportava il pensiero che potesse esserci qualsiasi pensiero di compassione, pietà e ogni forma di ipocrisia nei suoi confronti.
Era meglio fingere.
Era meglio non dire.
Era meglio costruire una nuova vita parallela a quella che gli era capitata.
Nel frattempo si iscrive ad un’accademia di belle arti e tenta dopo numerosi studi ormai portati a termine di riprendere quello che era il suo vecchio spirito artistico, musicale e creativo in senso ampio.
Qui cerca di esasperare la sua voglia di portare all’eccesso ogni forma espressiva che sente di dover lasciar uscire come segno del suo passaggio.
“Io mi nascondo, ma almeno dovete notarmi”, diceva.
“Sono fragile, ma sicuramente più in gamba di chi mi si pone davanti”.
E poi in realtà, non era lui.
Quella persona non c’era più da anni.
Quando si dice che tutti abbiamo una maschera si dice una grande ma semplice verità. Ecco, lui ne aveva una ben rinforzata e non ricordava più cosa c’era sotto.
Il suo atteggiamento si fa sempre di più radicale e così tenta di eliminare i farmaci dalla
sua vita, ma si accorge che sono l’unica soluzione che lo tiene aggrappato ad una minima normalità che va cercando sempre di più, nonostante il suo modo di essere sia ormai diventato l’opposto di ciò che è una vita normale.
La normalità lo schifa.
La mediocrità è peggio della menzogna.
Se la verità è questa, meglio mentire.
Il segno radicale, l’anormalità , la finzione e l’inganno entrano completamente nella sua vita senza ormai poter controllare anche i gesti più assurdi.
Nessuno lo costringe più a far nulla. Nemmeno il suo corpo.
Tempo dopo scopre tramite un’altra visita neurologica che la mutazione del suo codice genetico lo ha ereditato da suo padre, quasi sua unica fonte di stabilità e fiducia e in parallelo la clinica dalla quale da anni tentava invano di estrapolare una risposta reale, elabora la sua prima diagnosi conclusiva e lo dichiara affetto da una malattia rara, “distonia mioclonica ereditaria genetica”, provocata proprio dalla mutazione del gene DYT11, con fluttuazioni dell’umore, ansia , depressione e panico.
Le terapie farmacologiche si fanno più intensive.
Dare un nome alle cose è sempre stato una sua ossessione, riuscire a capire e a decifrare che cosa gli succede intorno. Tutto doveva essere incasellato, anche nella sua mente confusa.
Gli è stato proposto di poter mettere fine completamente ai sintomi tramite
un innesto elettronico alla base del cervelletto per dare scariche opposte a quelle provocate dalla malattia ed attenuare così i sintomi neurologici.
La verità è che ormai è tutto così parte di lui, quello nuovo e mutato, che anche solo il minimo dubbio che tutto possa essere causa di un aggravamento della malattia lo allontana anche dal solo pensiero di farsi sottoporre ad un’operazione così invasiva e definitiva.
Poi chi avrebbe il coraggio di dover cambiare ancora?
Ora sapeva che persona era stata in passato e quale persona suo malgrado
aveva scelto di essere per il prossimo futuro.
Era un prodotto della sua stessa condizione malata e ormai interiorizzata. Non si ricorda neppure chi c’era prima, al posto suo.
Ora, era l’incarnazione fisica della condizione e della consapevolezza postumana.
Rifiuta qualsiasi “protesi” permanente, ma i farmaci restano la sua unica via per continuare a fingere;
facili da nascondere.
Gli restano il cinismo, l’autoironia e l’estro sia emotivo che comportamentale, quasi al limite di uno scenario bordeline.
Essere fuori da ciò che è considerato “massa” gli è di conforto, superando la mediocrità anche soltanto con la consapevolezza di non essere geneticamente come gli altri e di conseguenza di non aver mai percepito la vita come la maggioranza ne fa esperienza quotidianamente. Geneticamente era mutato, come l’immagine che da quella consapevolezza si era costruito per il suo avvenire.
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